L’ Italia è spesso guardata dall’estero come una specie di enorme e omogeneo bene ambientale e artistico. Una sorta di giardino delle meraviglie naturali e storiche in forma di nazione, che molti al mondo provvedono o perlomeno sognano di visitare. Persino la retorica politica e amministrativa italiana investe da anni, almeno a parole, sulle potenzialità paesaggistiche e culturali del bel paese: la grande bellezza sarà il nostro benessere e il nostro business.
Quello che pochi sanno all’estero, ma che invece gli italiani cominciano a sperimentare in numero sempre maggiore, è che laddove le grandi opere si impongono su ogni altro ragionamento e vengono considerate prioritarie rispetto al patrimonio di natura e di monumenti della penisola, a occuparsi di salvaguardare il territorio non sono più le istituzioni, ma i cittadini. Grandi Opere è l’eufemismo con cui vengono ormai sdoganate, nel linguaggio mediatico e amministrativo, le cementificazioni, i trafori, le trivellazioni. Ecco perché gli abitanti dei territori interessati da grandi opere, spesso si riuniscono in associazioni e comitati. Iniziano con l’ informarsi, nell’intento di capire cosa sta per succedere sotto casa loro, visto che il più delle volte nessuno li ha informati o interpellati; e infine, sempre più spesso, scelgono di esporsi e di attivarsi per difendere le loro città, la montagna, il mare, da scelte politiche irresponsabili e senza visione del futuro. Si collegano in rete e nascono i movimenti, su basi territoriali sempre più ampie.
Sono i cittadini a opporsi e a fare fronte comune contro le speculazioni più devastanti, pianificate a vantaggio di poche lobby. In molti casi i comitati locali si sostituiscono alle amministrazioni inerti e si mettono di traverso per ostacolare progetti imponenti e spregiudicati i quali, sotto l’etichetta dello sviluppo indispensabile, celano flussi massicci di denaro pubblico e privato, parte del quale si disperderà negli infiniti rivoli della corruzione e della concussione. Che si tratti di progetti che minacciano ponti sul mare o che impongono di crivellare di tunnel le valli o che, ancora, prefigurano l’Adriatico come il nuovo eldorado del gas e del petrolio, il loro vero e unico nemico sono i movimenti. Gli abitanti dei territori mettono spesso in atto una resistenza a oltranza, che talvolta si spinge fino al sabotaggio. Anche perché questo sviluppo dal sapore di calcestruzzo e di idrocarburo, oltre a insidiare le bellezze dei territori, passa come un rullo compressore sugli stili di vita delle persone, sulle loro opinioni, sulle loro scelte comuni, sui loro desideri e sui luoghi in cui vivono. Malgrado i tentativi di criminalizzazione che talvolta persino la magistratura opera nei confronti di chi protesta e rivendica il diritto di partecipazione alle scelte sui beni comuni, i vari movimenti popolari come No Tav, No Tap, No Dal Molin, No Xilella, Trivelle Zero, sono ormai presidi di civiltà e di democrazia che si oppongono a un capitalismo incivile e vandalico, la cui unica professione è il profitto ad ogni costo.
Il governo Renzi, con gli articoli 37 e 38 dello Sblocca Italia (ribattezzati Sblocca trivelle), ha dato il via libera un po’ di mesi fa, ad un’asta che ha immediatamente alimentato gli appetiti delle società petrolifere nazionali e internazionali sui territori e sui mari della penisola, prospettiva già prefigurata dalla Strategia Energetica Nazionale dell’esecutivo precedente, quello di Monti.
Sottraendo agli enti locali la competenza in materia e concentrandola su di sé, l’esecutivo salta di fatto ogni confronto con i territori e spalanca i portoni alle trivellazioni in Italia, un paese i cui probabili giacimenti basterebbero, in totale, si e no a un solo mese di fabbisogno nazionale di energia. Allargando anche alle trivellazioni la dicitura di “opere di pubblica utilità” e aprendo alle company corsie preferenziali veloci e sicure, le nuove normative stanno rendendo possibile l’insediarsi massiccio, sui territori italiani e nei fondali adriatici, di impianti estrattivi per la “coltivazione di idrocarburi”, insediamenti invasivi e di forte impatto sull’ambiente e sulla vita delle persone. Per la legge, il passaggio dalla ricerca alla trivellazione, tra l’altro, potrà essere d’ora in poi immediato e senza necessità di ulteriori valutazioni o permessi.
Per farsi un’idea della macchina infernale messa in moto dal decreto, basti sapere che sono già più o meno una quindicina i permessi concessi dai primi di giugno, per quanto riguarda il mare, ad altrettante società petrolifere che hanno già iniziato a sondare, a suon di bombe ad aria compressa, gli oltre 3 milioni di ettari liberalizzati nel tratto di costa tra Rimini e Leuca, alla ricerca di idrocarburi. Il tutto in un mare quasi chiuso, dall’ecosistema a rischio, con un ricambio delle acque molto lento e con 78 concessioni per l’estrazione di gas e petrolio già attive dal passato. La Croazia che, un paio d’anni fa, aveva dato per prima il via al sogno petrolifero adriatico, sta già facendo marcia indietro.
Non c’è bisogno di un granché d’immaginazione per prevedere gli squilibri e i rischi che possono essere innescati da operazioni invasive come le estrazioni di gas o petrolio e dalle loro necessità infrastrutturali, anche nelle vicinanze di centri abitati, come di fatto sta accadendo. Ogni attività estrattiva, anche la più rigorosa in termini di conformità normativa, modifica prepotentemente e irreversibilmente l’ambiente in cui si insedia, e non solo quello naturalistico, ma anche quello antropico e sociale. Ai danni ambientali, al pericolo per la salute, all’inquinamento delle falde acquifere, al pericolo di incidenti, al traffico pericoloso e allo scempio paesaggistico, si aggiunge il rischio sismico. La Commissione scientifica internazionale ICHESE (International Commission on Hydrocarbon Exploration and Seismicity in the Emilia Region) a cui, all’indomani del sisma del 2012, la Regione Emilia Romagna aveva dato incarico di individuare possibili relazioni tra le attività di esplorazione nel sottosuolo e l’aumento dei movimenti sismici nel territorio emiliano, ha concluso che “l’attuale stato delle conoscenze e l’interpretazione di tutte le informazioni raccolte ed elaborate non permettono di escludere, ma neanche di provare, la possibilità che le azioni inerenti lo sfruttamento di idrocarburi nella concessione di Mirandola (a circa 20 km dall’epicentro della scossa più forte, ndr) possano aver contribuito a ’innescare’ l’attività sismica del 2012 in Emilia”.
E i possibili vantaggi per i territori? Persino quelli lasciano l’amaro in bocca. Le royalty che le multinazionali petrolifere versano allo stato italiano ammontano, a un deludente 4% sull’eventuale produzione, senza per altro nessun obbligo per le stesse aziende a commercializzare il prodotto sul territorio stesso, magari a prezzi più vantaggiosi. Ma c’è persino il trucco e sta nel fatto che la percentuale va versata solo oltre una certa soglia di tonnellate di produzione annuale.
La Regione Marche, per esempio, guadagna più o meno un milione di euro l’anno. Una miseria se si pensa che il territorio regionale conta, sulla terraferma, 21 pozzi attivi da anni per l’estrazione di gas. Ma forse in futuro guadagnerà qualche spicciolo in più, dal momento che, a “trivelle sbloccate,” altri 26 titoli minerari sono già stati concessi all’estrazione, sempre sulla terraferma, mentre circa altri 100.000 ettari sono sottoposti a permessi di ricerca. Attualmente il 22% del territorio regionale è a rischio perforazioni e 459 mila ettari di mare marchigiano ricadono in concessioni per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi. Se consideriamo parte integrante della partita anche i consequenziali centri di stoccaggio e ci aggiungiamo i 4 nuovi grandi gasdotti che dovrebbero attraversare le Marche con vari chilometri di nuove condotte, non tralasciando tutti i rischi per il territorio connessi all’infrastrutturazione e ai trasporti petroliferi, il quadro si fa ancora più critico. E contraddittorio. Si sta parlando, infatti, di una regione orientata da anni ad una crescita basata sul turismo naturalistico e culturale, pervasa da un’economia diffusa di piccole imprese. Dove, improvvisamente, si impone un cambio di direzione verso un’economia inquinante, rischiosa, antipaesaggistica e concentrata in poche mani.
Emblematico il caso di Recanati dove la COGEID, società titolare del progetto per il pozzo Vasari 2, aspetta solo l’intesa definitiva tra Governo e Regione, per iniziare la ricerca di un presunto giacimento di metano a 800 metri di profondità ed eventualmente avviare l’estrazione nell’area in questione. Il che avverrebbe in un’area a meno di 2 km dal centro storico di una cittadina a forte vocazione turistica; un’area già definita dal Piano Regolatore come “Zona Agricola di Salvaguardia Paesistico-Ambientale”, già classificata dalla Regione “a pericolosità moderata per le frane” e contraddistinta da un “rischio sismico 2”. La ciliegina è che il tutto può avvenire senza nessuna Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) e nonostante il parere tecnico negativo del Comune. Il comitato Trivelle Zero Recanati, che aderisce al Movimento Regionale, nato a settembre ma già molto attivo, è riuscito poche settimane fa, ad ottenere un consiglio comunale aperto e a farsi approvare unanimemente dai consiglieri una mozione con cui l’Amministrazione si impegna ulteriormente a opporsi con ogni mezzo consentito al progetto di trivellazione, informando e coinvolgendo il comitato e i cittadini.
Nel maggio scorso 50 mila persone, convocate dal Movimento No Ombrina, hanno manifestato a Lanciano contro le trivellazioni nell’adriatico. I comitati e i movimenti contro le trivellazioni sono esperienze nuove, quasi esperimenti, che però già rivelano quanto la tutela dell’ambiente in cui si abita appartenga alla sensibilità delle persone. La difesa del territorio viene spesso connessa, nelle loro istanze, alla responsabilità per il futuro delle prossime generazioni. Il loro metodo è partecipativo e la loro proposta, in controtendenza rispetto alle scelte della classe dirigente, è orientata verso lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e non inquinanti.
Giampaolo Paticchio